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Ricostruire la tragica vicenda di Corradino di Svevia non era un’impresa facile, perché tutto avvenne, nel giro di soli sedici anni, verso la fine del 1200 e le fonti, dirette, sono poche, anche per colpa di un incendio che ha devastato l’Archivio angioino negli anni della seconda guerra mondiale (era stato per precauzione trasferito a Nola) e che ha distrutto tutto il carteggio dal quale si sarebbero potute ricavare informazioni decisive. Ma a dispetto delle asperità della ricostruzione, Lino Zaccaria non si è avvilito e per anni ha scavato alla ricerca di tutto quello che poteva contribuire a far luce sulla vita, sull’avventura e sulla morte dell’ultimo rampollo degli Svevi, sceso in Italia dalla natia Baviera per tentare di riprendersi quel trono che era stato del padre e del celebre nonno, Federico II. Il generoso tentativo del giovanissimo principe svevo si tradusse in una tragedia immane, che giunse all’epilogo proprio a Napoli, in quella che è oggi piazza Mercato, sotto gli occhi commossi e atterriti di migliaia di cittadini, radunati apposta perché quella decapitazione fungesse da monito. La descrizione dell’uccisione di Corradino di Svevia è il “piatto forte” della ricostruzione che l’autore ha proposto ai lettori con “L’aquilottto insanguinato”, edito da Graus, in questi giorni in libreria. Il saggio si apre con un’introduzione di carattere storico sullo scenario nel quale era maturata tutta la vicenda. Corradino aveva appena poco più di sedici anni. All’inizio la sua sembrava un’avventura destinata al successo contro l’usurpatore Carlo d’Angiò, che il Papa aveva insediato sul trono di Napoli. Ma l’impresa era fallita a Tagliacozzo, in Abruzzo. Proprio quando sembrava che il giovane principe potesse avere la meglio al termine di una sanguinosa battaglia campale, il rivale, grazie ad un’abile mossa tattica di un suo vecchio condottiero, era riuscito a prevalere. Corradino, in fuga, era stato catturato sul litorale laziale, tradito dall’anello imperiale che ancora portava al dito. E chi lo aveva catturato, Giovanni Frangipane, lo aveva poi consegnato a Carlo d’Angiò. Un passaggio ancor oggi discusso di questa vicenda: fu Frangipane un traditore nel consegnarlo al re angioino, visto che in passato erano stato fedelissimo degli Svevi? A questo interrogativo l’autore cerca di rispondere citando sia quelli che condannano il Fragipane, sia quelli che lo giustificano. La citazione letterale delle fonti consultate è una consuetudine che Lino Zaccaria ha mutuato dalla sua lunghissima esperienza giornalistica e che, come asserisce nella premessa, deliberatamente ha inteso seguire. Lo sottolinea nella prefazione anche Pietro Gargano: “La scrittura è sorvegliata, semplice, volutamente scarna, perché la ricerca della verità non ha bisogno di abbellimenti di maniera. Eppure queste pagine si leggono in un solo respiro, perché lo stile di un cronista vero è fatto di ritmo, di pause sapienti, di idee incalzanti. Il racconto dell’esecuzione è emozionante, nonostante sia privo di toni truci, di dettagli sanguinolenti, di particolari di fantasia come il guanto di sfida lanciato dal morituro, come l’aquila svolazzante. E’ perfetta l’atmosfera di macabro stadio, con la folla accorsa allo spettacolo della morte, con il tappeto rosso fino al palco del boia, orrenda forma di rispetto fasullo per il condannato”. Chiusa la ricostruzione storica, dedicato un lungo e significativo passaggio al testo e all’analisi della celebre poesia di Aleardo Aleardi (“era biondo, era bello, era beato…”), l’opera si chiude con due “chicche”: l’intervento di Ciro Discepolo che descrive il quadro astrale del protagonista e conclude che era scritto nel destino che dovesse morire tragicamente. E infine con un’intervista ad una medievalista di fama, Gabriella Piccinni. La quale, facendo violenza al suo impulso di “terzietà”, alla fine conclude che fra i due, Corradino e Carlo d’Angiò, la figura del primo è quella verso la quale si indirizza la più naturale simpatia.

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Donde viene, da quale storia, l’ultima plaquettela ballata del tempo a ritroso di Salvatore Violante?

È stato detto della poesia di Eliot che essa ci parla in modo realistico, che i suoi uomini in maniche di camicia davvero ci mostrano le cose; e che la poesia dev’essere tale, realistica; ora, Carlino (Sud/I poeti, V, Cosenza 2019, p.  187) dicein una breve introduzione ad alcune poesie di Violante, che “chi scrive parla dalla strada” e Grasso (“Infiniti Mondi” n. 12 (2019) , dice di lui poeta di strada … , nonostante i riferimenti anche illustri) – allora com’è questo essere per strada, che chiamo realismo, di Violante? 

Provo ad abbozzare i caratteri della poesia di Violante, quindi, le sue immagini.

La sua terra, le forme (in Moti e terremoti Torino 1987,  poi riedita; e quindi il vulcano (cfr. A. GiassiI  giri d’angolo di Salvatore Violante, Roma 2014, 13, 27:  “poeta vesuviano…”,  in Gente per strada, 13…), una presenza da cui non si può prescindere, dal momento che chi passa dalle parti dell’autore è immancabilmente colpito da quel versante del Vesuvio, incombente, che nemmeno sembra tanto minaccioso, ma è una fiancata brulla, d’una lava grigio-scura, a pochi metri, scoperta su quel lato della strada…, come farne a meno? Di temerla ma anche innamorarsene, anche vedere l’aspetto vitale di quel terreno? (Pedicini, cit. da Giassi, 77).  Terra mitologica, di antichissima cultura, da questa e dall’altra parte del vulcano, con i riferimenti classici ( Grasso, Infiniti mondi, cit., 222 e Sud/I poeti, , Carlino, cit.,  186,); il riferimento all’umanità che vive, come il poeta, aggrappata alle falde, e anche no  (Moti e terremoti: “e poi sono del Sud…”, cit. in Giassi, 75 e 79; Spagnuolo e Nazzaro; Itinerario di versi diversi, Roma 2013,  8; Gente per strada, 10, …), con l’elemento di forte critica socio-politica (e acquisita presa di consapevolezza, legato alla cultura socialista e comunista (Giassi  7: sembrerebbe quella di stampo rivoluzionario, radicale) italiana ed europea, il fiume planetario, che grida ( Infine, in  Itinerario di versi diversi,  48) che spesso si presenta come una bandiera (anche in La ballata del tempo a ritroso, riferita ai tempi di Isernia, ma diverso …); dunque elemento locale e globale(Grasso, come Carlino,  dice condivisione) e insieme politico e antropologico (Carlino, Sud/I poeti, 186 “senso colorato di mediterraneità/ compito comunitario del poeta… portavoce di una collettività”),; la ulteriore saldatura di tutto alla propria esperienza di vita, il “privato”,   … questi elementi, stando all’inventario, e altri ancora.  

Guardando poi e attraversando da un altro punto di vista, un aspetto della mente poetante, che emerge, e che porterei in primo piano è l’aspetto etico della propria situazione nel mondo. Etica è condurre vita secondo verità; è assunzione di responsabilità nel mondo; denuncia,                     

Un pisciatoio il cielo, …

                                           la discarica fuma …

, in Sud/I poeti, 193 (momento etico, politico, sociale, mitologico; a Sebastiano Vassalli, 189-90) …; La gente del Sud, critica sociale, cit. in Giassi 21  … ma, all’ intersezione tra privato e sociale, 

 

 

                                                   Questo è un tempo desertico

                                                   Le impronte

                                                   S’adunano col vento e si disperdono.

                                                   Questo

                                                   Svuotato,

                                                  È un mondo senz’un’anima

                                                  Rifabbricato a forza di vocaboli. 

 

                                                  Intorno a nulla… , cit. in Giassi 28 ;

 

Tale aspetto, poi, va connesso all’uso che Salvatore Violante fa del linguaggio, un uso molto consapevole, dovuto alla sua estrazione linguisticasaldatura di tutto questo magma che s’è detto  alla propria istruzione e formazione classica (Carlino, Sud/I poeti,186), con forme prosodiche ben definite, pur  provenendo da famiglia di modeste origini; Gente per strada, 9;  R. Urraro in Secondo Tempo dice dell’uso naturale dell’endecasillabo da parte di Violante, recensendo Sulle tracce dell’uomo, e lo cita Giassi, 62 sgg; insieme, Violante cerca di saldare tutto questo humus colto alla tradizione popolare. A volte l’uso del dialetto, (Gente per strada, 11, 55, 61…   (v. anche, p. e., in Giassi, 35, e Itinerario di versi diversi, 43). Se la poesia è una successione di parole che vanno cantate, qui lo è fin nella forma popolare della ballata: v. Mimmo Grasso in Infiniti Mondi, cit., 219. 

La dimensione etica, conduzione di vita secondo verità, non può fare a meno dell’elezione linguistica del poeta; e questo sono i modi per i quali Violante è poeta realista, e che parla della strada, ma diversamente che altri.

Il governo della lingua – dunque, come titolò, genitivo soggettivo oppure oggettivo che sia, Seamus Heaney, comporta privilegio e responsabilità; forse che da questo deriva qualche forma di salvezza? A volte tutti sembriamo crederlo, quando siamo nel fervore dell’impegno e delle occasioni; altre volte siamo vinti dalla vita, dalle sue situazioni, dalla vicissitudine, che ci opprime e schiaccia. Difatti R. Giorgi dice, cit. da Giassi, 62, che non si è ancora, in questi versi, oltre l’uomo, ma nel movimento per superarlo …

Banale, rispondere con il no. L’etica non è salvifica. “Tonalità di silenziosa disfatta”, “lucida amarezza” sono presenti, cita   Giassi, 36, 45… 

Ma, sebbene consueto, più importante e giova forse ripeterlo: cosa dà forza? Solo la consapevolezza del buon lavoro compiuto e riuscito, al momento, qualunque esso sia; del salvato mondo degli affetti, comunque sia, che resta puro (la dedica al figlio di Gente per strada; le poesie come “Amore mio…”, da La Meccanica delle pietre nere, cit. in Giassi, 34, …   ; “Martina” …, cit. in Giassi, 44; e come dire allora che “ho fatto tutto quanto stava in me”.

 

Tra il disastro dell’esistenza, qualunque essa sia, anche la più splendida, e gli spiragli di redenzione: in questa oscillazione a mio parere, (Gente per strada, 28; 34, 35, 36…) si muovono i versi, così caratterizzati, di Salvatore Violante. La ballata del tempo a ritroso (2019) rappresenta un momento di provvisorio equilibrio e compostezza su/tra forze diverse: 

Questo mi torna spesso alla memoria

                Flashback d’un tempo. Torna forse senza

                Che ancora sia compresa la portata.

 

Come a volte avviene per lavori meno recenti:

 

                Sanno d’antico e di fantasmi i pini

                Sulla città sepolta

                E il silenzio respira d’aria fresca e gelsomini.

                Io lì,

                Sorseggio l’aria dei latini.

                Fuori, 

                Le mani in un misero piattino

                                                                                          Un bimbo, a gara, scalzo, ed un micino.      (Dalle campagne…, in Gente per strada, 52)

 

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Salvatore Violante, stimato poeta vesuviano, fa una recensione al libro d'esordio della nostra Antonella Bianco. Una lettura oltre le righe che denota estrema acutezza e spiccata sensibilità.

 

Già dal titolo Antonella Bianco, poeta in esordio, pare volerci indicare la piega che i volti debbano prendere in itinere: sembra che intenda, cantando e certe volte persino lasciandosi incantare da giochi sonori, mostrarne la fenomenologia disponendoli in chiaroscuro con il quotidiano, con le attese dal quotidiano. “Il risvolto dei volti”, questo è il titolo con cui la Nostra ha pubblicato per i tipi di Italic, nell’ottobre del 2019, recita nel testo-dedica d’introibo: - Ai 1000 volti incontrati una sola volta, / a chi per volere o per destino è dietro l’angolo capovolto, / ai voltafaccia della vita e alle facce rivolte alla vita, / a chi fa del giorno nuovo la propria svolta. – (pag. 5). Sembrerebbe indicare una via al vivere: quella di non sottovalutare gli scarti tra i neuroni che generano empatie e quelli che invitano al prudente buonsenso, tra l’intelletto d’amore e quello di ragione e di accettare l’interscambio come un insieme di uguali fra uguali: - Tutto ti appartiene tutto è parte di questa vita di questo/ mondo: vivi e sii intero – (pag. 7). C’è tutto questo certo ma c’è anche, di fatto, che questo libro viva di vita propria palesando, in generale, una poesia delicata, sussurrata in confessionale, dove non c’è suono ma risuono, non pianto ma rimpianto, dove l’amore è presente come assoluto nelle cose, è un bisogno, una tensione, una energia che per sua natura provoca combustione e cenere, freddo e tormento, melanconia per la perdita, e urgenza di ritrovarlo. -Non ti conosco ma ti amo/ con l’esperienza della fine. / in un’altra vita / -ti giuro- / avremo altri volti da iniziare. - Vedete, qui c’è l’esperienza della fine ma anche la promessa e la premessa del cambiamento: ansia di vita nuova e di nuovi portamenti, e, finanche, l’iniziazione di volti nuovi. A guardar bene, l’amore rappresenta l’arco voltaico da cui esplode la poesia di Antonella Bianco. Ѐ lo scarto che in questo libro si configura tra il fenomeno in fieri e l’aspettativa vagheggiata, tra l’amato toccato e l’amore mitizzato. Poli opposti: c’è tutta l’energia che si configura in fantasmi sempre in moto, un andare e venire tra cielo e terra, uno sfiammare simile all’arco di liceale memoria. (…) nel nostro amore al buio / Ci tocca mettere le mani sui volti / Per riconoscerci ad ogni appuntamento. (… / Ci sembra quasi un sogno finito / male, questo bellissimo incubo / di noi girati di schiena a guardarci. (…) (pag. 21). In questo guardarsi senza vedersi, stando di schiena, si coglie la struggente angoscia per la caduta del mito. Nella quarta di copertina, anch’essa scritta dalla Bianco, si legge: -Ѐ la paura di invecchiare a mischiarsi alla paura di non essere riusciti ad amare. Esplode. C’è un sogno cattivo che non mi abbandona: il perderti e il perdermi. Se io non ci sarò quando tu verrai e se la corrente mi avrà condotto altrove. (…). - Ovviamente, con queste frasi, la Nostra dialoga con “Amore”. La Bianco è terrorizzata dallo scarto che sempre trova tra le storie reali e quelle sognate. In questo scarto c’è l’esplosione che si trasforma in malinconico tormento: da qui la figurazione di Amore che arriva mentre Lei sta per perdersi non sapendo amare, confusa dal fluire della storia (con la lettera minuscola) sua e del mondo, facendo così ontologico il suo disagio.

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La prestigiosa sede del museo archeologico territoriale di Terzigno (MATT) ha fatto da cornice alla presentazione del libro "Caccia agli invisibili". Un romanzo nato dal sinergico rapporto tra la penna di Francesco Romeo e la felice intuizione del sostituto commissario Carmine Gatti, nonché presidente dell'Associazione "Insieme tra la gente", libro già insignito della fondazione Antonio Caponnetto quale "libro anomalo". La presentazione- evento voluta dal primo cittadino Francesco Ranieri è stata organizzata grazie al fattivo contributo del presidente del consiglio comunale di Terzigno Giuseppe De Simone. "Abbiamo colto l'occasione quando, nelle settimane scorse, Carmine Gatti ci prospettó l'opportunità di organizzare questo evento che ha la duplice valenza - ha dichiarato il sindaco Ranieri-, da un lato si favoriva la crescita culturale e contestualmente si seminavank valori fondanti come la legalità in una struttura simbolo della memoria vesuviana quale è il MATT. Per questo abbiamo colto favorevolmente la proposta di Gatti". Gli fa da eco il presidente del consiglio comunale : "Abbiamo inteso proseguire il percorso per favorire la cultura della legalità che stiamo portando avanti con eventi del genere - precisa Giuseppe De Simone - questo appuntamento ha rappresentato un'occasione unica per poter mettere a confronto uomini e donne dello Stato impegnati in prima linea. "Deve essere motivo di orgoglio per la nostra realtà aver accolto personalità di altissimo profilo con le quali si sono trattati argomenti legati alla giustizia ed alla legalità - sottolinea il consigliere Tina Ambrosio". Sull'argomento è intervenuta anche l'assessore alla cultura Genny Falciano: "È una giornata importante per la nostra Terzigno, in questo luogo dove si conserva la nostra memoria, conserviamo anche questo evento e la viva voce di chi ha sacrificato e sacrifica la propria esistenza, affinché la legalità non sia un concetto astratto ma una tangibile priorità delle libere istituzioni". Molto apprezzati gli interventi, degli autori Francesco Romeo e Carmine Gatti che hanno illustrato la genesi di questo volume in cui si riscrivono gli anni bui della guerra tra i clan camorristici e la nascita della Direzione Investigativa Antimafia al fine di arginare l'escalation di violenza. Anni di guerre di quartiere e di migliaia di vittime lasciate sul campo per affermare l'egemonia camorristica nei territori vesuviani. Presente il capo della DIA Dott. Lucio Vasaturo che ha evidenziato l'utilità del lavoro sinergico Interforze tra l'intelligence delle Polizie ad ordinamento civile e militare e quanto lungimirante sia stata l'intuizione di Falcone. Ha lasciato attoniti gli astanti l'intervento del dirigente dello S. C. O Dott. Alfredo Fabbrocini, terzignese d'origine ancora legato a questa terra. Fuori dal coro l'intervento del presidente dell'ordine degli avvocati di Nola Avv.to Domenico Visone il quale, ha ricordato che gli anni difficili della lotta tra clan tolse di fatto serenità alla sua generazione. Il Procuratore aggiunto Dott.ssa Di Monte ha evidenziato quanto prezioso e difficile sia il lavoro degli uomini della DIA e quanti sacrifici si nascondono per portare al termine una missione alla ricerca di pericolosi latitanti. Dalla Di Monte una domanda provocatoria tesa a fronteggiare il muro dell'omertà :"come hanno fatto per anni i boss dell'area vesuviana a nascondersi facilmente senza che nessuno si accorgesse mai di nulla?" In chiusura l'intervento dell'assessore Alfredo Ranieri che ha interpretato un brano del romanzo dedicato all'omicidio del giornalista Giancarlo Siano. Serata ricchi di spunti da parte di uomini dello Stato presenti in sala come l'ex questore di La Spezia Francesco Di Ruberto e gli angeli in divisa Nello Odierna e Raffaele Gragnaniello i quali, unanimemente, hanno criticato gli scritti di Roberto Saviano. Un evento che difficilmente verrà cancellato dalla memoria dei terzignesi grazie anche alle capacità oratoriali del moderatore Genny Galantuomo che ha sapientemente coordinato la serata.

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Fedele Temperini è il nome del soldato che salvò la vita ad un giovanissimo Ernest Hemingway, durante la I Guerra Mondiale. La trincea sull’argine del Piave, a Fossalta, dove il giovane della Croce Rossa si era recato per portare cioccolato e sigarette ai combattenti e per raccogliere cronache di guerra, venne colpita nella notte dell’8 luglio 1918 da un colpo di mortaio partito dalle linee austriache che dilaniò il corpo di un giovane militare che si trovava di fronte al giornalista, facendogli da scudo. Tuttavia, Ernest rimase gravemente ferito. Condotto nell’ospedale da campo e scongiurata la sventurata ipotesi del taglio della gamba, causa cancrena, Hemingway guarì e trasferì tutta la sua avventura in quel piccolo cimelio che è “Addio alle Armi”. Secondo il biografo James McGrath Morris, Fedele Temperini era originario di Montalcino e mai identificato prima d’ora. Lo stesso Hemingway non lo cita nel suo romanzo semi autobiografico forse perché, probabilmente, egli stesso non ne conosceva le generalità. In un libro uscito nel 2017, «The Ambulance Drivers: Hemingway, Dos Passos, and a Friendship Made and Lost in War», McGrath Morris ha raccontato l’esperienza e l’amicizia dei due giovani americani guidatori di ambulanze (e futuri scrittori) durante la Grande Guerra. In fondo al libro, ricorda il biografo, «avevo trascritto i nomi dei 18 soldati italiani che secondo i documenti ufficiali erano morti in battaglia nella notte in cui Hemingway fu ferito». Da quei diciotto nomi, «con l’aiuto dello storico Marino Perissinotto, siamo riusciti a individuare quello del giovane soldato che salvò la vita a Hemingway». Identificando i luoghi dove erano dislocati i reparti dei 18 soldati, la caccia si restringe a tre che sono caduti in quell’area l’8 luglio. Due appartenevano al 152° Reggimento di Fanteria della Brigata Sassari, che però si trovava a qualche distanza dal Piave. Il terzo invece era del 69° Reggimento della Brigata Ancona, che stazionava proprio sulla prima linea, a Fossalta, «nella zona dove si registrarono i combattimenti più duri». È questo terzo soldato caduto «il salvatore» di Hemingway, secondo la ricostruzione di McGrath Morris e Pessinotto: i registri dell’esercito riportano il nome di Fedele Temperini, di Montalcino, in Toscana. Aveva 26 anni, Fedele, uno dei 600 mila ragazzi che morirono facendo muro all’avanzata austriaca sulla linea del Piave. Il sacrificio di questo valoroso soldato ci ha permesso, oggi, di godere dei lavori di un appassionato cronista e di un pregevole scrittore come Hemingway, afflitto da una turbolenza interiore che lo spinse a viaggiare di continuo senza mai trovare pace, salvo che nella scrittura. Un uomo forte ma al contempo fragile. Ricco di contraddizioni e zone d’ombra, proprio quelle ombre che lo spinsero, un mattino del 2 luglio 1961, a togliersi la vita sparandosi un colpo di fucile.