La poesia del solstizio d’estate: isole accese su Terzigno

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E’ una strana ricorrenza: aspettare l’estate con un fuoco acceso. Se non fosse altro che metafora di luce, piuttosto che di calore. Come segnale di fuoco, come segnale di vita. Da un’isola. Sperduta nel mare, in mezzo a tante isole. La lasciamo navigare, ci lasciamo navigare. Se non fosse altro che le isole siamo noi. E ascoltiamo con tutti i sensi la poesia che, già alla prima scintilla, divampa. E’ una fresca domenica sera qualunque, primo giorno d’estate, come da rituale. Cosa unisce tante persone a ritrovarsi in un unico posto? In un cerchio unito e denso, tanto vicine nei pensieri da poterli vedere tutti in fila, i loro pensieri: e brillare negli occhi, attraverso le mani, sulla voce che cammina. Tante isole in una sola isola. Dicono che sia “la passione per le parole”, ma ancor più forte è l’amore a condurle. Lo stesso che unisce le persone in matrimonio e stringe i patti d’amicizia e sveglia in un lampo al mattino con la forza di rendere un qualcosa al mondo.

 

Salvatore Violante ha teso i fili: e tutti, fidandosi, lo hanno seguito. Insieme a lui, Giuseppe Vetromile ha fermato i momenti: l’indiscusso sorriso dei presenti è apparsa la fotografia più bella da conservare nella mente, l’accoglienza più calda. La musica, fedele compagna, ha fatto vibrare ancor di più le parole che uscivano dalla bocca dei poeti e si fermavano sulla pelle, creando brividi: il sassofono di Francesco Cirillo e il piano di Stefano Bottiglieri. Puntuale, alle 21, come in tutti i luoghi in cui è avvenuta la stessa manifestazione poetica, l’inconfondibile voce di Mario Grazio Balzano ha recitato la poesia simbolo di quest’anno: Vent’anni, della poetessa rumena Carmen Bugan, emigrata negli Stati Uniti nel 1989. La straziante malinconia dell’addio in una condizione perpetuamente attuale. Il dramma di chi, partendo, non lascia soltanto vie conosciute e volti cari, ma una parte di sé, dietro di sé, che non tornerà più. Con la stessa violenza che il tempo impone a chi abbia da ristabilirsi dopo un lutto. Partire, senza altre vie d’uscita, è come uno strappo.

 

Prima donna della serata è stata, senza dubbio, Wanda Marasco, autrice de “Il genio dell’abbandono”, libro arrivato tra i quindici finalisti per il Premio Strega e che racconta la vita del più grande scultore italiano attivo tra Ottocento e Novecento, Vincenzo Gemito. La scrittrice ne ha letto alcune pagine, mostrando di sé mille sfumature: autrice di un capolavoro, narratrice della sua storia, regista dei suoi movimenti, attrice della sua ispirazione. Il pubblico è rimasto in silenzio, attento. Si è stati come a teatro, in un’atmosfera forte e penetrante, allo stesso modo. Non servono, talvolta, quinte, copioni, costumi, regia. Occorre talento. E il talento appare soprattutto nel modo in cui ci si avvicina e si arriva alle persone, nel modo in cui le si guarda. E Wanda Marasco ha potuto godere anche di questo invisibile, importantissimo titolo: il talento di saper guardare con dolcezza le persone intorno. Marilena Gragnaniello, accompagnata dai Cantapopolo, danzava intorno al rito del fuoco acceso, creando un momento suggestivo. Il professore, saggista e poeta, Raffaele Urraro, ha letto alcuni passi del suo lavoro su Leopardi: “Giacomo Leopardi. Le donne, gli amori”, una ricerca sull’universo femminile presente all’interno delle opere del poeta ottocentesco. Mentre la luce fuggiva e calava il buio, le voci dei poeti continuavano ad alternarsi, simili a moti dell’anima, rinascenti emozioni: Giovanni Balzano, Annibale Rainone, Anna Rachele Ranieri, Clara Chiariello, Prisco De Vivo, Carlo Di Legge, Lina Sanniti, Mario Apuzzo e gli stessi Salvatore Violante e Giuseppe Vetromile, organizzatori dell’evento.

 

A vederli dall’esterno, non li capiresti, i poeti: diresti che sono diversi, diresti che sono uguali. Diresti persino che non vi appartieni, diresti che un po’ ti spaventa avvicinarti a loro, ai loro pensieri così trasparenti, così nascosti. E allora cerchi a tutti i costi le parole, le metti insieme. Un pensiero ricorrente, un malumore, un sentimento nuovo. Le getti sul foglio e allora pensi: “poesia”. I poeti son poesia, e in essa c’è tutto il mondo, il tangibile e il non, non vi è altra definizione più vicina alla loro vita.

 

Il silenzio dell’attenzione viva negli occhi di tutti si è sciolto in commozione con una poesia del poeta Salvatore di Giacomo, recitata con ineguagliabile coinvolgimento emotivo da Mario Grazio, prima voce narrante del territorio vesuviano. In chiusura della serata, “la consapevolezza di riconoscere quale sia la fortuna” sono state le ultime parole di Salvatore Violante: la fortuna era essere lì tutti insieme e non chiedere di più.

Ultima modifica il Mercoledì, 24 Giugno 2015 11:01