Leonardo. Se non c’è il crime, le fiction non ci piacciono
Mercoledì, 24 Marzo 2021 17:02 Scritto da Paola Gentile Pubblicato in Tempo Libero Letto 1408 volte
La struttura è sempre la medesima: il morto ammazzato, il protagonista vittima sacrificale che trova il proprio riscatto solo alla fine (in genere nell’ultima puntata) e l’inquisitore che scava nel passato del presunto omicida per portare a galla la verità.
Nel 99,9% dei casi, il protagonista è un uomo tenebroso, tormentato, disgraziato.
Sembra questo ormai il mantra che recitano nella stanza dei bottoni di viale Mazzini, e la giaculatoria è talmente tanto oliata che neppure l’ultima serie - prodotta da Lux Vide e Sony Pictures in collaborazione con Rai Fiction e Big Light Productions ed in associazione con France Télévision, RTVE e Alfresco Pictures - è da meno.
Sto parlando, ovviamente, di Leonardo: la miniserie in quattro puntate che racconta il genio italico famoso in tutto il mondo e padre indiscusso della maggior parte delle invenzioni di cui possiamo disporre oggi, oltre ad essere stato un eccelso studioso di anatomia, alchimia, botanica.
Tutto parte da un quadro mai rinvenuto, Leda e il Cigno, di cui sono visibili solo i disegni preparatori e considerato il capolavoro dell’artista di Vinci, e da un delitto: la bella modella Caterina da Cremona (Matilda De Angelis, The Undoing) viene ritrovata morta avvelenata e tutti i sospetti ricadono su Leonardo (Aidan Turner, Poldark). Ad indagare sulla vicenda, l’ufficiale del Podestà, Stefano Giraldi (Freddie Highmore). Leonardo ora vive a Milano, in seguito alla fuga da Firenze dove non se la passava troppo bene: accusa di sodomia, allontanamento dalla bottega del Verrocchio (episodio mai avvenuto, in realtà), rapporto conflittuale con il padre e bisogno impellente di far accettare la propria arte basata sull’esperienza, “io dipingo ciò che vedo”, è solito ripetere.
Scritto da Frank Spotnitz, già autore de I Medici, e Steve Thompson, la storia viaggia sul filo sottilissimo del vero, del verosimile e dell’inventato, espediente al quale Spotnitz ricorre sempre più spesso per rendere i propri prodotti accattivanti, sennò - per dirla con le parole di Matilda De Angelis a Domenica In – «non è che si può fare na rottura de palle su Leonardo da Vinci».
In mezzo, qualche quadro (Il battesimo di Cristo, nel quale Leonardo dipinse il volto dell’angelo sulla sinistra; e il ritratto di Ginevra De’ Benci) e svariati rimorsi di coscienza tanto al chilo. L’artista viene ritratto come un ragazzo timido, introverso, non ancora consapevole della propria grandezza. Un uomo in balia degli eventi che lo portano alla corte di Ludovico Sforza. In sottotraccia, ma neppure così tanto, il tarlo che lui sia responsabile di tutte le sciagure dell’umanità e che sia davvero “maledetto”, come era stato profetizzato alla madre quando lui era solo un neonato (altro elemento inventato).
Leonardo è un buon prodotto, sia dal punto di vista interpretativo che scenografico, ma risente di quella patina di “americanata” tale per cui sembra costantemente di assistere ad una trasposizione dei libri di Dan Brown, dove ipotesi strampalate, misticismo, esoterismo, risoluzioni sconclusionate e rapporto uomo/donna (un po’ troppo all’avanguardia per l’epoca in cui sono ambientate le vicende) sono dietro l’angolo.
La costruzione stessa della fiction intorno al quadro mai trovato e che rappresenterebbe proprio Caterina (della cui esistenza si ha traccia, perché citata in una corrispondenza in cui Leonardo le chiede di fargli da modella) ha la tragica consapevolezza di quando compri una borsa griffata su internet e poi scopri che è un falso d’autore. Il mistero ha sempre il suo fascino, così come la ricerca dell’assassino, in questo caso, un po’ telefonato, ma far ruotare tutti e 8 gli episodi intorno a questo elemento, compresi i flashback di uccelli svolazzanti e preannunciatori di sciagure, è forse un po’ troppo. Anche perché i passaggi in cui l’aspetto umano (vedi omosessualità e rapporti interpersonali) viene fuori rappresentano notevoli punti di forza.
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